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Non lo potevo licenziare

Questa che vedete a seguire è la lettera che scrissi a Piero Gondi, il 26 gennaio del 1524. Il tema di questo scritto è una questione spinosa relativa a un certo Stefano, un collaboratore che avevo assunto mio malgrado poco prima per i lavori della Sagrestia Nuova.

Non avevo una grande fiducia in lui. Era poco abile e l’unica cosa che sapeva far bene era farmi perdere tempo. Volentieri lo avrei cacciato ma mi guardai bene dal farlo. Era un ingratoma se lo avessi mandato via, sapete quante voci sarebbero circolate sul mio conto? Già si vociferava da lungi che mal tollerassi un mucchio di persone…ma che ci volete fare, mica mi potevano star bene tutti, no?

Non potevo permettermi di esser publichato infra e’ piagnoni per maggior traditore che fussi in questa terra. Il sempre vostro Michelangelo Buonarroti e i suoi racconti.

Vi riporto la lettera integrale a seguire, prima in foto e poi trascritta

A piero Gondi.jpg

Piero, el povero ingrato à questa natura, che se voi lo sovvenite ne’ sua bisogni, dice che quel tanto che gli date a voi avanzava, se lLo mectete in qualche opera per fargli bene, dice sempre che voi eri forzato, e per non la saper far voi v’avete messo lui; e tucti e’ benifiti[i] che e’ riceve, dice che è per necessità del benifichatore.

E quando e’ benifiti[i] ricievuti sono eviddenti, che e’ non si posson negare, l’ingrato aspecta tanto, che quello da chi egli à ricievuto el bene chaschi in qua[l]che errore publicho, che gli sia ochaxione a dirne male che gli sia creduto, per isciorsi dall’obrigo che e’ gli pare avere. Chosì è sempre intervenuto chontra di me; e non si impacciò mai nessuno mecho – io dicho d’artigiani -, che io non gli abi facto bene chon tucto el chuore poi, sopra qualche mia bizzarria o pazzia che e’ dichon che io ò, che non nuoce se non a mme, si son fondati a dir male di me e a vituperarmi, che è el premio di tucti gl’uomini da bene.Io vi scrivo sopra e’ ragionamenti di iersera, e sopra e’ chasi di Stefano.

Io insino a qui non l’ò messo in luogho, che se io non vi potevo essere io, i’ non n’avessi trovato un altro da mectervi; tucto ò facto per fargli bene e non per mia utilità, ma per sua e chosì ultimamente. Ciò che io fo, fo per suo bene, perché ò facto impresa di fargli bene e non la posso lasciare. E non creda o non dicha che io lo facci per mia bisognio, ché gratia di Dio non mi mancha uomini, e sse l’ò stimolato a questi dì più che l’ordinario, l’ò facto perché io sono anchora io più obrigato che l’ordinario, e èmmi forza intendere se e’ può e sse e’ vuole o se e’ sa servirmi, per potere pensare a’ chasi mia.

E non veggiendo molto chiaro l’animo suo, richiesi iersera voi che fussi mezzo a farmi intendere l’oppenione suo, e sse e’ sa fare quello di che io lo richiegho, e se e’ può o se e’ vuole, e se e’ sa e vuole e può che voi intendessi da lLui quello che e’ vuole el mese a essere sopra e’ garzzoni e insegniare lor fare la materia e quello che io ordinerò; e e’ gharzoni gli ò a pagare io. Io vi richiesi iersera di questo, e di nuovo ve ne priegho che voi mi facciate intendere, chome è decto, l’animo suo; e non vi maravigliate che io mi sia messo a schrivervi simil cosa, perché e’ m’importa assai per più rispecti, e massimo per questo che se io lo lasciassi sanza g[i]ustificharmi e mectessi in suo luogho altri, sarei publichato infra e’ Piagnioni per maggiore traditore che fussi in questa terra, benché io avessi ragione. Però priego mi serviate.

Io vi do chon sicurtà noia perché voi mostrate volermi bene. A dì venti sei gemnaio 1523. Michelagniolo schultore in Fire[n]ze.

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