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Scampato dalla peste

“Qua chomincia la moria ed è della cactiva“.

Le pestilenze ai miei tempi erano all’ordine del giorno. Non credo ci siano state generazioni in Europa fra il ‘300 e il ‘700 che non abbiamo vissuto sulla propria pelle o dei propri familiari il dramma della peste nera.

Avevo una trentina d’anni quando ebbi a che fare per la prima volta con quell’inferno che mieteva vite e distruggeva intere famiglie. In quel periodo mi trovato a Bologna alle prese con l’imponente fusione del Giulio II di bronzo che il pontefice in carica voleva far posizionare sopra il portone principale della basilica di San Petronio.

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La situazione cominciava a peggiorare e la peste si stava diffondendo a macchia d’olio. In una lettera che scrissi al mi caro fratello Bonarroto del 26 marzo 1507 gli scrivevo “Qua chomincia la moria ed è della cactiva , perché non lascia persona dov’eòòa entra, benchè per ancora non cie n’è molta forse quaranta case, secondo che m’è decto…”

Da quella ondata di peste mi salvai ma ne avrei affrontate tante altre nella mia lunga vita. Nel 1522 la peste stava entrando rapidamente a Firenze. Già stava flagellando Roma e la situazione era più che preoccupante. Attorno alla città di Firenze venne istituita una cintura di 18 miglia: chiunque entrasse dentro doveva essere sottoposto a quarantena ovvero 40 giorni esatti di isolamento totale.

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Chi poteva fuggiva lontano dalle grandi città per trovare rifugio in luoghi più isolati. Non era chiaro come si trasmettesse il morbo come invece lo è adesso con questo Covid-19 ma quello che pareva lampante è che stare lontano il più possibile dai centri affollati riduceva il pericolo di contagio.

Il mio amato fratello Buonarroto, più piccolo di me di un paio d’anni, se n’era andato presso la villa di Settignano insieme al nostro babbo.

In una lettera che il notaio Vespucci scrisse proprio a Bonarroto per una questione di un incarico che avrei voluto affidargli se non avessi messo in pericolo la sua vita facendolo tornare a Firenze, lo stesso Vespucci annota: “Non tochare le lectere che io ti mando chon mano” temendo che il toccare la lettera potesse essere veicolo di contagio.

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Chissà se quella precauzione il mi fratello la prese o meno. Purtroppo Buonarroto s’ammalò di peste. Tentai di farlo curare nel miglior modo possibile inviandogli addirittura tre differenti dottori ma poco dopo la morte lo strappò dall’affetto di noi familiari.

Una trite vicenda che mi lasciò a dir poco sgomento.

…La memoria ‘l fratel pur mi dipigne,
e te sculpisce vivo in mezzo il core,
che ‘l core e ‘l volto più m’affligge e tigne….

Fatevi coraggio per affrontare questo periodaccio. Vi abbraccio uno a uno. Il sempre vostro Michelangelo Buonarroti e i suoi racconti.

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