Il Rosso Fiorentino e la maniera che non voleva prendere: la sua lettera
Il Rosso Fiorentino, al secolo Giovan Battista di Jacopo di Gasparre, arrivò a Roma nel 1523 per lavorare alla Cappella Cesi in Santa Maria della Pace.
In quell’occasione ebbe modo di vedere da vicino le pitture mie e di Raffaello e ne rimase affascinato e assai turbato. Da quel momento il suo modo di dipingere cambiò radicalmente.
Entrando nella Cappella Sistina e guardando la volta affrescata si lasciò sfuggire una frase che temeva potesse offendermi.
Per riparare al danno volle scrivermi una lettera piena di salamelecchi e parole su parole. Il Rosso Fiorentino era un tantino prolisso ed esagerato nella scrittura ma ci teneva a precisare quanto detto al cospetto dei miei affreschi, per evitare che altri gli mettessero in bocca parole che avrei potuto ritenere parecchio irritanti.
“…non mi è parso tacere, troppo parendomi che nel vivo tochimi questo, cioè che intendo ch’è ad voi stato persuaso che io, qua giungiendo et in la cappella da voi dipinta entrando, dicessi che non volevo pigliar quella maniera...”
A seguire vi riporto la lettera originale, buona lettura.
Roma, 6 ottobre del 1526
Al magnifico viro Michelagnolo Buonarroti felicità. Quantunque più tempo et infinite volte con desiderio di scrivere pensato habbi, dalla debita reverentia, dubitando non men tedio fosse che altro porgervi, son con questo timore ritardato sempre; ma vedo ogni stremo esser vitioso, perché dal debito timore in vile timidità era incorso.
Presso che pagato ho l’errore, anchora che non discaro in tucto è statomi. Questa ancor che così facta occasione considerate esser causa non sol darmi materia, ma forzarmi ad far mio debito; del che se forse alquanto prolisso, vi prego ne perdoniate et tucto causate a la sincera adfection mia et timore di perdere quello che perdere non ho meritato quest’è la gratia vostra, ad me sopra ad ogn’altra carissima.
Sì come voi sapete, moltissimi son quelli che dove il capo cacciar non possono, se ingegnano la coda mecterci; per che alcuni che qua con tucte lor forze si sono provati far di me anchora sì come è lor maligna natura far d’ogn’altro, et mediante la Dio gratia et de l’huomini giusti iscoperto parte di loro bructure, con quella gratia et honore che ad huomini di tal sorte si aspecta riuscitine, di qua costì venuti essendo, al refugio d’ogni dappoco ricorsi, con la lingua a non altro advezza intendo quanto più possino s’ingegnano vendicarsi, o per megl[i]o dire ricoprir le loro vergogne.
Le quali cose, dato che ne l’honor tocco essendo non senza qualche turbatione possibil sia passarle, pure, confidandomi in quello che è somma verità, con patientia sopportavo, maxime havendo per più lettere inteso quanto voi, la vostra gratia et benignità, n’havete più volte difeso.
La qual cosa considerato con quanta forza ai malivoli repugnava, et per conseguente ad quanto obligo legato alla excellentia vostra m’habbi, per restar dell’una con sì scaricatissimo hanimo et all’altra non sapendo trovar modo render minima parte delle debite gratie secondo l’obligo et affection mia, per manco errore senza scrivere mi passavo.
Ma li corrocti et a mal far disposti hanimi veggendo non posser in questo, sì come saria lor desiderio, dannarmi, ad nuovi modi, per quanto intendo, si sono voltati; li quali modi con molta maggior forza et passione più premerebbano se adcectati fussino. Il che, quantunque da confidar habbimi ne l’integro et sano giuditio vostro et ad presso in la mia innocentia, pur non mi è parso tacere, troppo parendomi che nel vivo tochimi questo, cioè che intendo ch’è ad voi stato persuaso che io, qua giungiendo et in la cappella da voi dipinta entrando, dicessi che non volevo pigl[i]ar quella maniera.
La qual cosa, ancora che quanto la sia sciocca o in sé habbi di verisimile da per sé lo mostri, et quantunque, sì come sopra dissi, nel giuditio vostro, acto ad penetrare ogn’altra dato che gran cosa, non pur questa sì facta scioccaggine, et sì nella grandeza de l’hanimo vostro, di simil novelle poco curioso, confidare mi possi, non perciò mi è parso preterir li debiti modi ad purgare se ruggine alcuna entrata fussi nel concepto di voi o d’altri che di me così facta temerarietà inteso havessi.
Per che per questa vi dico che chi ardisce di così adfermare, i’ dico che mente della parola sua, et per questa paratissimo ad ogni paragone; et non solo questo, ma che i’ habbi mai altro che sì come di cosa divinamente facta parlato et sì di quella et sì di voi et de ogn’altra opera vostra, se non di quanto merita, almeno di quanto io son capace.
Né questo penso che ad vile adulatione [m]e adtribuirete, con ciò sia cosa che certissimo sono il cognoscete da per voi – ché senza non ‘1 posseresti operare -, perché la pura mia intentione so cognoscerete esser questa. Dove i’ vi prego che di me sicondo il vostro buon hanimo facciate giuditio, et tal nel concepto vostro adceptatemi, et non sicondo chi più el mal mio desidera che la sua salute propria, et chi s’ingegna con questi modi ricoprir sé et vendicarsi del vituperio che qua gli ho facto.
Ad presso a tucto questo vi prego a un vostro garzone, il quale i’ non cognosco ma come ogn’altra cosa di voi esso anchora amo, et che di me ha facto sopra la dicta materia querela, vi piacci per benifitio mio, per mia parte dirli che i’ lo priego inmagini che forse non manco adfectione vi porta el Rosso che lui si facci; ma pareria giusto che tanta più quanta più la età mia, di qual voi siate doveria essere capace che la sua per anchor non è forse.
Ma piacemi sentirlo adfectionato al suo patrone, il che da nobilità di spirito nascendo, non senza buona speranza di lui si può conghiecturare. Ma far non posso già non mi dolghi che lui di me una così brutta cosa creda, et credendola ad altri la facci credere, dove di me come d’arrogante sì strana favola si facci.
Pure in la verità di tucto mi confido. Per non esser mio esercitio, i’ non posso, scrivendo, del mio concepto […]ite una minima parte esprimere ma in la buona mente vostra sperando, con q[uant]o ho dicto quieterò; che se per altro verso inmaginassi, leggerissimo saria per costì [veni]re et giustifi[carm]i qual io sono et sarò sempre per voi servire paratissimo et disideroso sopra ogn’altra cosa.
Per ultimo vi prego vi piacci mantenermi qual insino ad questo giorno […] istò in la buona gratia vostra, ad la quale del continuvo mi raccomando. Di Roma, questo dì VI di octobre MDXXVI, per il vostro affectionatissimo servitore Rosso fiorentino. Al magnifico viro Michelangelo Buonarroti. In Firenze.
Il libro
Se volete approfondire la conoscenza su questo grande pittore manierista, vi consiglio il libro Rosso Fiorentino. Leggiadra maniera e terribilità di cose stravaganti scritto da Antonio Natali che ha diretto con impeccabile professionalità e passione la Galleria degli Uffizi dal 2006 fino al 2016.
Un libro appassionato, ben documentato e che permette di addentrarsi nelle viscere di questo grande artista. Lo trovate QUA.
Per il momento il vostro Michelangelo Buonarroti vi saluta dandovi appuntamento ai prossimi post e sui social.
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